Scapa Flow, i relitti del centenario
In occasione di questa ricorrenza l’autore del servizio ha organizzato una spedizione in queste fredde e torbide acque. La tragica fine del sommergibile tedesco UB 116 di Andrea Murduck Alpini
Dicono che almeno una volta nella vita a Scapa Flow bisogna andare. Dicono che i relitti già abbondantemente esplorati in passato, oggigiorno siano davvero irriconoscibili. Dicono che spesso la visibilità sia scarsa, il tempo ovviamente instabile, il viaggio lungo. Ma dicono anche che il viaggiare stesso valga la fatica di farlo.
Mentre rientravo dall’Hmhs Britannic Expedition decisi che avrei organizzato questa sorta di pellegrinaggio in occasione del centenario (1919-2019) dell’affondamento della flotta tedesca a Scapa Flow. Non importa cosa vedrò o cosa non vedrò dei relitti che giacciono sul fondale, la mia unica finalità è quella di vivere questo luogo, la Scozia e le Orcadi, attraverso una storia vecchia di un secolo e che merita di essere raccontata.
La campagna inglese che da Dover arriva fino alle porte della Scozia è interminabile. La M1, qui denominata “The North”, conduce fino all’inizio delle Highlands; da lì in avanti si apre un nuovo mondo fino al prossimo punto di imbarco: Scrabster. Oltre, finalmente, arriveranno le Isole Orcadi.
Incredibilmente, nonostante possa dire di “conoscere” i posti verso cui sono diretto – attraverso immagini, filmati e racconti di migliaia di persone che mi hanno preceduto – ho la netta sensazione di dirigermi verso un luogo misterioso e ignoto. Il pellegrinaggio, a ben pensarci, ha sempre a che fare con un’esperienza mistica e sacra da raccontare e tramandare. Dopotutto, soltanto viaggiando si conosce; e il significato di ogni viaggio sta nel ritorno. Tornare è ciò che lo rende un tramite di…
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Deporre le armi a volte non paga. Questo avranno forse pensato i membri degli equipaggi delle 74 navi della Kriegsmarine che, in seguito ai trattati di Versailles, sono state internate nella baia di Scapa Flow a partire dall’11 novembre 1918. Ventimila soldati vennero rimpatriati in Germania, mentre scarni equipaggi furono lasciati imbarcati a vigilare le proprie navi. La prigionia marittima a volte sa essere più truce di quella terrestre: uomini alla fonda impossibilitati a toccare il suolo scozzese, prigionieri della propria flotta. L’esercito di Sua Maestà consegnava quotidianamente giornali vecchi di quattro giorni agli ufficiali tedeschi così che non potessero studiare strategie alternative alla prigionia e, magari, capovolgere la situazione.
Chi fa conti avanza conti, dice un vecchio adagio. E così è andata, infatti. L’astuzia e la matematica possono essere fatali, soprattutto se gestite da brillanti ufficiali. L’ammiraglio Ludwig von Reuter lesse la sua penultima copia del The Times il 16 giugno, poi quella del giorno seguente, il 17 giugno 1919. Le colonne londinesi riportano la notizia che gli Alleati hanno rifiutato qualsivoglia controproposta tedesca di concludere la guerra, dando ulteriori cinque giorni ai teutonici per accettare le condizioni. Scaduto il tempo, le ostilità sarebbero state considerate nuovamente aperte.
Ore 10, mattino del 21 giugno. L’ammiraglio Reuter si presenta in alta uniforme sul ponte di comando della sua unità navale, la Emden. Scruta l’orizzonte e le altre navi. Un suo ufficiale lo informa che la Guardia britannica ha lasciato la baia per effettuare un’esercitazione. Egli non crede alla fortuna che ha tre le mani. Ordina immediatamente di issare le bandiere “DG”, il cui significato internazionale è “nuovi avvisi imminenti”.
Ore 10.30. Scatta il segnale “Paragrafo 11, confermato”. Il dado è tratto, direbbero i latini. I marinai imbarcati sulle spettrali navi della flotta tedesca iniziano le operazioni di auto affondamento. Tutto era stato pianificato. Le mandate ben lubrificare, i grossi martelli posizionati in punti strategici, i passi d’uomo e i boccaporti aperti. In poco tempo l’ordine viene trasmesso per osmosi alle navi vicine. Ciascuno comunica con segnali luminosi e morse.
Una flotta sta per non consegnarsi al nemico. Una nazione sta per perdere le proprie navi. Un comandante sta per diventare leggenda.
Ore 11.30. Il segnale di “Paragrafo 11, confermato” torna dalla nave più lontana della baia alla Emden. È l’inizio della fine. Alcune imbarcazioni issano la bandiera a sfondo bianco della Kriegsmarine, altre espongono la bandiera rossa corrispondente alla lettera “Z”, ovvero “nemico in avanzata”. Lo spirito bellico pervade la baia scozzese.
Sedici minuti più tardi la prima nave da guerra tedesca, SMS Friedrich der Grosse, si capovolge su se stessa. Le eliche sono al vento, il ponte è immerso. Pochi minuti dopo l’acciaio tedesco tocca il fondale britannico.
Storie e leggende da qui si intrecciano. Talvolta dipanare la matassa è difficile. Si sa, la storia è stratificata. Pare, tuttavia, che un soldato fu visto irto sulla prua suonare il Corno delle Alpi mentre la sua nave, la Baden, si inabissava facendo ribollire l’acqua sotto di sé. Non solo le cornamuse scozzesi intonano ritmi impavidi. Davanti alla resa l’onore resta nei secoli.
A bordo della Karin, il peschereccio tramutato in barca-diving che funge da base logistica per le immersioni alle Orcadi, giace il silenzio. Sono usciti tutti. Ho avuto il tempo di rileggere queste belle pagine di teorie da un vecchio libro inglese che avevo acquistato alcuni giorni prima. Mi dirigo al ponte superiore a pulire e lavare il mio basilico che con cura ho portato da casa. Il suo profumo ha inebriato il Wreck Van per tutto il viaggio, ora è giunto il suo destino. Lo respirerò per un’ultima volta ricordando il mio Mediterraneo, il mare da cui vengo e pensando al mare del Nord in cui mi immergerò nei prossimi giorni.
UB 116: l’ultimo sottomarino della Grande Guerra
Tra le tante storie che si intrecciano a Scapa Flow ve n’è una che mi ha particolarmente incuriosito. Si tratta della tragica fine del sottomarino UB 116 comandato dal primo sottotenente Hans Joachim Emsmann. L’ultimo sottomarino a essere affondato nella Prima Guerra Mondiale. Il battello fu commissionato il 23 settembre 1916 e costruito presso i cantieri Blohm & Voss di Amburgo. Varato il 4 novembre 1917, fu trasferito un anno dopo, a breve distanza dall’armistizio, presso la Terza Flottiglia. L’UB 116 partecipò a quattro missioni esplorative senza mai affondare alcun naviglio.
Una delle ultime missioni affidata al comandante Emsmann fu quella di recarsi nella baia di Scapa Flow per affondare più quante navi britanniche possibili. Tra i suoi principali obiettivi vi era la HMS Queen Elizabeth.
Il 25 ottobre 1918 l’UB 116 lascia la sua base di Helgoland alla volta delle Isole Orcadi. Il comandante si affida alle notizie fornitegli che indicano la baia Sud delle Orcadi, Hoxa Sound, come punto in cui penetrare le forze britanniche. La baia è protetta sia dal relitto della Hmt Strathgarry, che funge da sbarramento, sia da reti immerse esplosive.
Sono le 21.29 quando gli idrofoni inglesi rilevano il transito del sottomarino tedesco. Immediatamente viene dato l’allarme a tutte le navi della Corona; devono pattugliare la baia. Un’ora più tardi, alle 22.30, arriva l’ordine di far brillare in remoto le mine presenti nella zona. L’UB 116 è investito marginalmente dallo scoppio di una mina e affonda rapidamente con a bordo le vite di 34 membri dell’equipaggio.
Alcune storie locali riportano che il giorno seguente due pescherecci della Marina inglese si sono recati sul punto dell’affondamento con degli idrofoni per rilevare l’eventuale presenza di vite all’interno del sottomarino. Pare che le navi di Sua Maestà abbiano sentito segnali dal fondale, colpi assidui battuti sulle pareti dello scafo tedesco. Mancò la lealtà o, forse, era soltanto il vento di guerra che soffiava e imponeva le regole. Un destroyer della Royal Navy ricevette nuovamente l’ordine di rilasciare sul sottomarino e nell’area circostante una serie di cariche di profondità. L’equipaggio teutonico morì per la seconda volta, in questa occasione senza possibilità di consegnarsi prigioniero.
Cinque giorni dopo l’affondamento dell’UB 116, la Royal Navy invia una pattuglia di palombari a visionare ciò che resta del sottomarino. È il 29 ottobre 1918. Scende sul relitto Dusty Miller per conto della Marina britannica. Il palombaro approccia la torretta, apre il boccaporto e trova i corpi esanimi dei 34 marinai tedeschi. Sono tutti addossati in un unico punto: vestono in alta uniforme.
Proseguendo con le ricerche viene recuperata una valigia in pelle contenente alcune camicie, abiti civili, effetti personali e delle sacchette con somme di denaro. Sembra quasi che l’equipaggio fosse pronto a sbarcare e dismettere la divisa per passare agli abiti civili sull’imminente finire della guerra. I loro propositi non hanno mai avuto seguito.
Il giorno seguente, nuova immersione e questa volta Dusty recupera il diario di bordo del battello. I corpi sono ancora lì. Alla fine della guerra il relitto viene trainato; in prossimità della superficie il cavo si spezza e l’UB 116 si inabissa di nuovo. Nessuno esegue un secondo recupero e abbandona il tutto sul fondo del Mare del Nord.
Nel 1940 la HMS Challenger ritrova il relitto e lo vende nel 1968 a una società esterna che vorrebbe demolirlo per recuperarne il ferro. Nel 1974 è portato in acque basse e l’anno seguente i militari della Marina identificano due siluri inesplosi a bordo del sommergibile. L’anno successivo la Royal Navy interviene nuovamente dopo aver estratto le spoglie dei tedeschi. L’UB 116 viene fatto brillare sul fondale. Alcune testimonianze dicono che i pezzi più piccoli arrivarono sino a terra, distante circa 350 metri. Il sottomarino è polverizzato. Attualmente quel che resta dell’UB 116 è considerato patrimonio culturale di Scapa Flow.
In questi giorni ho avuto modo di scegliere dove immergermi nella Baia. Tra i tanti relitti esplorati e che sono considerati patrimonio culturale pur apparendo come “rottami dilaniati”, ho deciso di dedicare un’immersione non al’UB 116, ma al suo equipaggio. È una storia che meritava di essere salvata, salvaguardata e tramandata.
Quando sono sceso sul relitto non mi interessava andare alla ricerca di alcun dettaglio, eccetto uno: ciò che rimaneva della torretta, simbolo dell’equipaggio. L’ho vista accolta in una dolina di sabbia bianca, ungarettianamente appoggiata al fondale come d’autunno, sugli alberi, le foglie.